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Intervista a Fabio Bartoli

 

• Caro Fabio, innanzitutto grazie per la disponibilità. Iniziamo dalla domanda più ovvia: presentati brevemente ai nostri lettori.

Ciao a tutti e piacere di conoscervi, anche se in maniera soltanto virtuale.
Mi chiamo Fabio Bartoli e sono nato nel 1980. Nel momento di rispondere alle domande di questa intervista si avvia al termine la mia esperienza di vita in Germania, a Berlino, durata circa due anni e mezzo (quando gli utenti la leggeranno sarò già tornato in patria).
Sono laureato in Scienze della comunicazione e ho lavorato come giornalista in radio e per la carta stampata, con qualche sporadicissima incursione televisiva.
Negli anni tedeschi questo tipo di attività si sono per forza di cose diradate ma mai interrotte del tutto e, chissà, forse potrebbero riprendere nei mesi venturi. Per il resto… chi vivrà, vedrà (me compreso!).

• “Vado, Tokyo e torno” è la tua prima esperienza di racconto di viaggio. Cosa ti ha spinto realmente a lavorare a questo libro?

Tutto è cominciato quando ho parlato a Marco Pellitteri, direttore scientifico della Tunué, del viaggio che avrei intrapreso di lì a poco, chiedendogli qualche consiglio su come spendere al meglio il tempo che avrei trascorso in Giappone poiché sapevo che vi era stato alcune volte per motivi di lavoro.
In quel periodo lavoravamo insieme al mio libro Mangascienza, sempre per Tunué (ottobre 2011), dopo aver collaborato alla revisione editoriale di altri volumi della stessa casa editrice.
Marco ha così pensato di implementare la collaborazione invitandomi a documentare questa esperienza e io ho accettato con entusiasmo; in realtà mai avrei pensato di scrivere di letteratura di viaggio e devo ammettere che un incentivo particolare me lo ha offerto l’impostazione della Tunué, che si occupa principalmente di fumetto e arti grafiche.
Questo ha fatto sì che “Vado, Tokyo e torno” non risultasse semplicemente un racconto di viaggio ma un colorato collage della realtà nipponica, con un occhio di riguardo rivolto alla sua cultura pop. Un taglio, questo, decisamente nelle mie corde!

• Credi che il tuo libro possa interessare a molte persone oppure è diretto essenzialmente ai “fanatici” della realtà nipponica?

Questa è una domanda che accolgo con molto piacere poiché mi permette di parlare dello spirito del libro.
Devo ammettere che esso strizza un po’ l’occhio a quelli che il Giappone lo amano già, soprattutto perché nello scriverlo ho deciso principalmente di farmi guidare dall’entusiasmo che ho provato nel visitare questo paese realizzando un mio sogno, comune appunto a questa possibile tipologia di lettori. Magari a tratti può sembrare un po’ troppo entusiasta ma – lasciatemelo dire – chi se ne importa!
Quando si visita un luogo per poco tempo si cerca di prendere solo il buono che esso ha da offrirti e io è proprio questo che ho cercato di fare e sostanzialmente ho fatto.
Il Giappone che racconto è quello visto attraverso i miei occhi affascinati, avendo deciso di non sottostare all’obbligo del disincanto che spesso viene considerato degno di un atteggiamento più maturo. Occhi incantati ma, ci tengo a precisarlo, privi di paraocchi: descrivo anche gli aspetti meno cool del Giappone palesatosi alla mia vista, pur consapevole che la conoscenza delle realtà problematiche di un paese richiederebbe una permanenza ben più lunga di quella che mi sono potuto concedere.
Nello scrivere il libro ho comunque pensato che fosse giusto rivolgersi a tutti quelli che non sono amanti o fanatici del Giappone ma che lo guardano semplicemente con curiosità o in alcuni casi anche con pregiudiziale scetticismo: la scelta di dedicare box tematici a termini e/o concetti specifici legati alla realtà nipponica è stata dettata proprio dalla voglia di raggiungere anche i lettori non accecati dal bagliore del Sol Levante.

• Nel tuo libro sei sempre piuttosto positivo riguardo luoghi e persone. Ma c’è stato un momento in cui ti sei sorpreso a pensare “ma chi me l’ha fatto fare”?

Sì, devo dire che il mio atteggiamento è stato in generale decisamente positivo. Quando ti trovi in un contesto molto diverso dal solito l’entusiasmo per i luoghi (in questo caso, scelti di visitare volutamente e consapevolmente) credo si impadronisca di te per forza di cose ma a volte districarsi in un ambiente così inconsueto può essere difficile.
Proprio per questo devo sottolineare che la gentilezza dei giapponesi mi è stata di grande aiuto.
Magari qualcuno potrebbe obiettare che questa peculiarità sia frutto di una rigida educazione e non di una genuina predisposizione verso il prossimo; anche se così fosse, state certi che la gentilezza è sempre benvenuta, il caval donato al quale non è proprio il caso di guardare in bocca.
Per entrare nel vivo della domanda, devo dire che non ho mai pensato propriamente “ma chi me l’ha fatto fare?” (io soltanto, sempre e comunque) ma certo è che c’è stata un’occasione in cui ho davvero sentito il bisogno di “casa” nel senso più nobile del termine.

 

È successo il giorno che ho cercato di visitare il museo della Bandai (nella foto a lato), la grande industria di giocattoli, situata nel paese di Mibu, a nord di Tokyo.
Per raggiungerlo, a causa di coincidenze sfortunate e di una non adeguata preparazione dell’itinerario ferroviario da parte mia, ho cambiato un elevato numero di treni, spingendomi sempre più verso l’interno del paese. Le risaie e le tipiche case basse giapponesi hanno preso il posto dei grattacieli e mi sono ritrovato in luoghi ben diversi dalla capitale, dove mi sono sentito davvero un alieno.
Nessuno che parlasse inglese, nessuna scritta nel nostro alfabeto, nessun punto di riferimento. Il tempo passava, la meta del mio ritorno si faceva sempre più lontana e il giorno cedeva lentamente il passo alla sera. Era inoltre una giornata molto fredda e ricordo che alla stazione di un paesino eravamo presenti solo io e una studentessa con il fuku (la divisa alla marinaretta) a cui tremavano le gambe scoperte.
Alla fine sono arrivato tardi al museo della Bandai e non l’ho visitata ma ho pensato che quel giorno non fosse stato sprecato, poiché mi ha fatto rendere conto più degli altri di come io mi trovassi effettivamente in un altro mondo, portandomi a cogliere il significato più profondo del mio viaggio in Estremo Oriente.

• Tra tutti i luoghi che hai visitato durante il tuo viaggio, c’è n’è uno che hai amato in particolare?

Vorrei citarne tre, se possibile: il tempio Kinkaku-ji a Kyoto, dalla bellezza commovente, la cui vista ti fa davvero comprendere perché i giapponesi considerassero il loro un paese divino; il quartiere di Shibuya (Tokyo), quello dove escono i giovani della capitale, dall’atmosfera davvero elettrizzante; il Ghibli Museum, non soltanto un museo ma un vero e proprio tempio dedicato all’animazione.
Poi c’è il monumento dedicato ai bambini vittime dell’atomica a Hiroshima (e con esso tutto il complesso dell’Hiroshima Memorial Park), un luogo denso di significati ma che avrei preferito non fosse mai esistito.

• Ribaltando la precedente domanda, c’è un luogo in cui non torneresti assolutamente?

Sì, l’agenzia di viaggi in cui mi sono recato per cercare di comprendere cosa mi aspettasse in seguito alla cancellazione del mio volo a causa dell’eruzione del vulcano islandese Eyjafjallajökull. Non è piacevole ritrovarsi dall’altra parte del mondo senza conoscere la data del proprio ritorno a casa. Ma questo non è certo dipeso dal Giappone e dai giapponesi.

• Leggendo noi lettori abbiamo notato come tu abbia girato parecchio. Quanto è stato pianificato nel tuo viaggio? Ossia, sei partito già con le idee chiare su cosa avresti voluto vedere?

Sì, sono partito con le idee decisamente chiare, pianificando gli spostamenti a dovere anche perché ho acquistato il Japan Rail Pass per una sola settimana e ho dovuto regolarmi di conseguenza (ho dovuto inoltre comprare con largo anticipo il biglietto per il visitatissimo Ghibli Museum).
In ogni caso posso assicurarvi che l’itinerario non lo avrei lasciato al caso: quando mi trovo in un luogo in cui forse non ritornerò mai più, e questo vale a maggior ragione per un paese così lontano, cerco di visitarlo al meglio. In viaggio non sopporto di sprecare il tempo e quindi lo impiego da vero e proprio stakanovista.



• Una persona che avresti voluto incontrare in Giappone, nel bene o nel male?

Difficile rispondere… Ci sono tantissime personalità del Giappone che ammiro e che mi hanno influenzato come scrittori, artisti, mangaka ecc. e a volte penso che sarebbe interessante poterle ammirare dal vivo come mi è accaduto con Go Nagai (foto a lato), l’ideatore di Goldrake e Mazinga, in occasione della sua tournée italiana. Ma poi credo anche che queste persone comunichino maggiormente attraverso le loro opere, che puoi avere sempre a portata di mano.
Ho letto una volta che Fabrizio De André aveva la possibilità di incontrare George Brassens, l’artista che più di ogni altro lo aveva ispirato, ma si rifiutò per conservare intatta l’immagine che di lui si era costruito ascoltandone le canzoni, temendo che l’impatto con la realtà la potesse demolire; ecco, anche io allora voglio pensare che forse è giusto così, che magari è meglio – per fare un esempio – mantenere l’immagine di Haruki Murakami che ci si è costruiti leggendo i suoi libri piuttosto che incontrarlo per una mezzora spesa a fare domande banali da lui sentite già un milione di volte. Rispondo allora che mi sarebbe piaciuto avere tempo e modo per conoscere le persone comuni nate e cresciute in Giappone, magari nemmeno mai state in Occidente, per confrontare le impressioni sul loro paese con quelle – inevitabilmente più attinenti alla realtà – che sono patrimonio di chi lì conduce la propria vita.

• Che cosa pensi degli stereotipi cui siamo abituati sul Giappone?

Che sono duri a morire e che purtroppo non possono essere scalfiti se non si ha modo di conoscere persone giapponesi e/o di recarsi in Giappone. Credo che le recenti, tragiche vicende ne abbiano dato un’ulteriore conferma.
Faccio alcuni esempi: secondo un pregiudizio diffuso, se i giapponesi mantengono la calma non sono considerati disciplinati ma robot privi di qualsiasi istinto vitale. Ma chi la pensa così ritiene veramente che mettersi a scappare gridando come un ossesso e diffondendo il panico sia il modo migliore per affrontare un’emergenza nazionale? Poi mi ha molto colpito la vicenda degli operatori che si sono introdotti nella centrale nucleare di Fukushima per cercare di limitare i danni, o meglio il modo in cui è stata recepita la loro azione. Mi spiego: se i pompieri di New York mettono a repentaglio la propria vita per cercare i dispersi tra le macerie del World Trade Center vengono considerati eroi, e ci mancherebbe altro; se i giapponesi cercano di riparare i guasti di un reattore nucleare sono stupidi e incoscienti, anelano a trasformarsi in Godzilla e in ogni caso non lo fanno per salvare generosamente altre vite ma solo per senso di responsabilità e dedizione professionale (qualità che in ogni caso io non me la sentirei di deprezzare a cuor leggero).
Ma se l’eroe è, nell’accezione comune, colui che sacrifica la propria vita o la mette a repentaglio per il bene della collettività, perché questo attributo non può essere conferito anche ai giapponesi? Avete avuto anche voi sensazioni simili oppure è stata solo una mia impressione? In ogni caso, fatta eccezione per alcuni interventi di persone lucide e competenti quali – per citarne alcune – Giorgio Amitrano e Vittorio Zucconi, ho letto una sequela interminabile di scempiaggini e luoghi comuni sul Giappone da parte di sedicenti esperti e commentatori da far rabbrividire.
Passi per l’informazione televisiva sulle reti generaliste, comunemente ritenuta sensazionalista e popolare nell’accezione negativa del termine; ma anche sulla carta stampata mi è capitato di leggere delle tendenziose assurdità sciorinate da parte di giornalisti ed editorialisti anche famosi (di cui non faccio nomi, meglio limitarsi a sottolineare i meritevoli), i quali non si sono minimamente curati di verificare la bontà di quanto uscisse dalla loro penna, dimostrando un atteggiamento supponente e superficiale nello stesso tempo.
Si interpella l’esperto di questioni statunitensi, mediorientali, cinesi ecc. ma non quello di questioni giapponesi; mi vengono in mente solo pochissime eccezioni come il giornalista Pio d'Emilia, che in Giappone ci vive e ne ha documentato le tragiche vicende sul campo
Ma d’altronde perché soffermarsi sulla realtà di una popolazione che sanno comunque tutti essere composta da demoni gialli, automi senz’anima sessualmente pervertiti, formiche in grado di condurre un’esistenza fatta solo di regole e priva di sentimenti?

• Domanda di rito: se ne avessi la possibilità, ti trasferiresti in Giappone?

Mi chiedi, per parafrasare il titolo del libro, se abbia il desiderio di scrivere un giorno “Vado, Tokyo e resto”.
Penso che se dovessi prendere in esame questa possibilità a livello concreto dovrei tener conto davvero di tanti fattori, affettivi e lavorativi in primis. A livello ideale esprimerei il desiderio col quale chiudo il libro, ossia poter in futuro di soggiornare in Giappone per un tempo maggiore rispetto a quello che vi ho speso nel 2010. Già questa eventualità mi renderebbe decisamente felice!


a cura di Silvia Causale (Luglio 2011)

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