Online da Aprile 2006



Vivere Tokyo: frammenti di Forma che sono Calma e Pazienza

È marzo. Sono le 21:30 circa. L’espresso della linea Inokashira è pieno, come sempre a quest’ora. La gente si spintona, si divincola cercando di ritagliarsi uno spazio vitale.
È noto ai più che non c’è contatto fisico tra i giapponesi che non si conoscono. La prossemica qui è fondamentale e c’è un confine oltre il quale è preferibile non andare. È forma, garbo e gentilezza; è cura per l’altro che non siamo, per l’altro che non conosciamo.
Eppure, quando si è su un treno espresso all’ora di punta, la prossemica si annulla. Ci si ammassa, letteralmente, gli uni sugli altri, sotto il magico sortilegio di una paziente e reciproca tolleranza.

 

È ottobre. Un giovedì come tanti. Stessa ora, stesso treno di ritorno. Non ci sono posti a sedere liberi. Non mi resta che aggrapparmi ad una delle maniglie in alto, poco lontane dall’uscita.
Davanti a me un uomo poco oltre la quarantina. Capelli brizzolati, completo da salary man, cuffie nelle orecchie, mani strette ad una lattina e occhi serrati. Il suo volto si corruccia in una smorfia di dolore, poi si stende. Ai lati del mento due lacrime. Le lascia correre lungo tutto il viso, come pervaso da un senso di abbandono.
Qualche screzio a lavoro, penso. Qualche delusione. Qualche responsabilità di troppo.
A un tratto, sorride. Di quei sorrisi che sono un po’ disperazione e un po’ stanchezza; un po’ pazzia e un po’ voglia di farla finita.

È un comune martedì di novembre. Mi sveglio di soprassalto e rimango per un attimo con gli occhi spalancati e le mani strette alla coperta, mentre ondeggio distesa sul futon. È un terremoto.
Il silenzio che mi circonda rende ancor più percepibile l’oscillazione e io sento che i miei battiti stanno accelerando. Rimango ferma immobile e trattengo il respiro, come se qualunque mio movimento potesse assecondare l’oscillazione e quasi accentuarla. Sono le 6:00 in punto. Nella prefettura di Fukushima è già in corso l’allarme tsunami ed è stato chiesto di evaquare la zona.
La natura sa essere davvero capricciosa in Giappone. Terremoti, maremoti, tifoni, caldo torrido ... Eppure, non mi è mai capitato di sentire un giapponese imprecare contro il vento che distrugge ogni ombrello; la pioggia umida che non risparmia anche i capelli più disciplinati e il caldo che stordisce i corpi più giovani.
È l’influenza del mono no aware, l’empatia verso il tutto e la sua impermanenza. Dalla sacralità del Fuji, alla bellezza degli alberi di sakura e momiji, immenso e sincero è l’amore per la natura che, pur capricciosa, all’occorrenza rallegra la vista e acquieta gli animi.


Una delle cose che questo paese mi ha insegnato, fra le tante, è l’esercizio costante della pazienza.
Se in Italia ho imparato a non spazientirmi per i ritardi dei mezzi pubblici, per le trafile interminabili della burocrazia, per un sistema che spesso non funziona, il Giappone mi ha insegnato a essere paziente e tollerante verso il prossimo.
I giapponesi sono molto discreti, un po’ per loro natura e un po’ per educazione. Per questo non mancano le scuse abbondanti, gli inchini e i volti costernati di chi si rende conto di aver urtato l’altro, la sua sfera personale.
Una volta un amico mi ha detto che qui le persone sono come i ricci: hanno paura di avvicinarsi fra loro e farsi del male. C’è certamente della poesia in questo pensiero, che va oltre l’oggettività del caso e coglie solo l’aspetto sensibile dell’interazione sociale.
Di fatto, la società giapponese non contempla il contatto fra estranei, anzi lo limita a una serie di formalità e giochi di ruolo. La sfera personale è fatta di poche relazioni, frutto di attente selezioni e calibrate decisioni.
Non sorprenderà dunque sapere che una coppia di fidanzati ricorre all’uso dei cognomi per riferirsi al partner in presenza di altri.
In una società globale sempre più aperta alla condivisione e vittima del fenomeno incalzante dei social-network, quella giapponese trova ancora il modo di ritagliare degli spazi avulsi e personali, nel significato tradizionale del termine, e sottrarli all’altro che in quanto tale non ha motivo di conoscerli.

I giapponesi sono persone fredde”, eccola l’etichetta facile in cui, ancora una volta, si annida il germe dello stereotipo.
Forse è vero che ci mettono più tempo a far nascere una relazione, perchè costruire implica investire tempo ed energie in qualcosa di incerto e la delusione è sempre dietro l’angolo. Forse è vero anche che gli uomini si dichiarano con difficoltà e che le donne si arrendono subito alla solitudine, perchè c’è l’assurda convinzione che a 25 anni non si è più in età da marito.
Ma vi assicuro che non è affatto così. Cambiano le prospettive, i modi di esternare, le forme. Eppure la sostanza rimane la stessa e non conosce nè diversità, nè inesistenza.

Eleonora Blundo


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