Online da Aprile 2006



Vivere Tokyo: azienda e lavoro come ingranaggi esistenziali

È maggio. Sono le 9:30 del mattino. La mia collega Rika mi avverte di un ritardo sulla linea Inokashira.
Mentre leggo distrattamente il messaggio, trovo la gente insolitamente ferma ai tornelli della stazione di Takaido. Sono tutti immobili a fissare un punto.
Allo schermo appeso in alto, il tracciato della linea Inokashira, direzione Shibuya, è segnato in rosso. Sotto scorre veloce una scritta: c’è stato un incidente e questo incidente riguarda qualcuno.
Nessuno che sbuffa, nessuna imprecazione. Eppure tra loro c’è chi deve andare al lavoro, come me.
Chi ha avuto un’emergenza e deve assolutamente essere dall’altra parte di Tokyo entro le 10.
Nessuno perde la calma. C’è una rassegnata e paziente attesa. Del resto, in un momento così non c’è molto da fare.
Poco dopo, degli uomini in divisa sbucano dai tornelli portando sulle spalle un enorme telo verde. Invitano la gente a farsi da parte, con voce ferma, ma parole gentili. Mentre aspettiamo che venga ripristinato il servizio, riusciamo finalmente a raggiungere i binari. Ci metto un po’ ad accorgermene. Forse perché la gente attorno a me non ne fa mistero, né curiosità, né pettegolezzo.
Nessuno guarda e nessuno si stranisce. Sui binari c’è una macchia di sangue ben visibile e gli operatori, armati di pompe idriche, stanno cercando di levarla via.
I suicidi a Tokyo sembrano essere frequenti e sul perché la gente si arrovella.
“Si lavora troppo”, qualcuno dice. “È pesante vivere in una realtà come quella giapponese”, qualcun altro sentenzia dall’altra parte del mondo.


Mi sono spesso chiesta, fissando quei binari dalla linea gialla, poco prima dell’arrivo del treno, che cosa passi nella mente delle persone. La verità è che nessuno lo sa. Nessuno può saperlo.
Leggo spesso commenti di chi ha la presunzione di conoscere. Gente che è quel che pensa di aver visto, quel che crede di aver sentito e ci si fossilizza.
Gente che, di fronte al mistero stesso della vita e della morte, non ha l’umiltà di tacere. Nel pressapochismo, Tokyo è solo la bestia che inghiotte la bella. Ma la verità è che non è possibile liquidare la questione con conclusioni semplicistiche e accuse forzate.
È innegabile che si lavori a ritmi sostenuti e a volte mi chiedo se sia davvero così indispensabile. Poi penso che, in fondo, fa parte di questa realtà e del suo viverla.
Il senso del dovere, la diligenza, il perfezionismo e lo stacanovismo, che in fondo non mi sono estranei, riempiono le giornate, forniscono obiettivi a breve termine sempre nuovi, che sono una spinta propulsiva dall’oggi verso il domani.
Così ci si trova a vivere per la maggior parte del tempo fuori casa, facendo del lavoro quotidiano e assiduo qualcosa di vitale.
Non fa parte del modo di essere giapponese abbandonare la nave un attimo prima che questa affondi. Solitamente si tenta il tutto per tutto e, nel caso, si affonda insieme. Perché l’azienda è uchi (家), casa, famiglia e come tale va tutelata.
Questi ritmi lavorativi probabilmente sfuggono alla nostra comprensione, abituati come siamo alla cultura della siesta, spesso e volentieri, talvolta scusata e condivisa, perché anteporre il proprio sé, laddove se ne abbia la possibilità, fa un po’ parte di noi.

 

 

In Giappone il lavoro sembra muovere tutto, economia a parte, scandendo il tempo della vita come fosse un “orologio dell’esistenza”.
Accade quindi che a gennaio ci si trovi già a pianificare i mesi di luglio e agosto; a settembre, persino l’anno nuovo. Le agende si infittiscono di impegni, incontri di lavoro, work shop, meeting e conferenze e, senza accorgersene, ecco che un anno è già volato.
Lo scorrere del tempo non è mai stato così veloce come qui a Tokyo. E questo è dalla tua, quando non vuoi pensare troppo e non vuoi lasciare spazio ad emozioni insidiose. Altre volte, però, tale rapidità può esserti nemica. Forse avresti voluto cavarci qualcosa di più da quei 365 giorni, che sono volati come niente.
Poi però basta un’occhiata alla tua agenda, alle sue pagine un po’ scure e quasi logore, per capire che non è andata proprio così. Riprendi febbraio, poi salti a giugno, infine a ottobre e ti accorgi di come le tue giornate siano state intense. Allora il senso di produttività si espande e ti rende ancor più partecipe di questa realtà a cui stai dando tutta te stessa, oggi, come ieri e (speri) anche domani.


Eleonora Blundo


Commenta

comments powered by Disqus